23 settembre: premiazione del concorso letterario 2012

Alla quinta edizione del concorso letterario promosso dalla Fondazione Opera Immacolata Concezione, con tema “A casa coi nonni. Storie di famiglie allargate…tra le generazioni”, due sono le opere premiate della sede di Vedelago: “Se chiudo gli occhi…” della signora Emanuela Prior, Ospite della Residenza, giunta alla quarta premiazione (…complimenti!) e “La mia fragile forte Nonna” del signor Luigino Righetto, amico della Fondazione. I due vincitori  sono stati accompagnati alla cerimonia di premiazione dalle loro famiglie, da alcuni Ospiti, dal Direttore di Sede, dalle Referenti degli Operatori e da alcune Operatrici.

A conclusione della manifestazione il pubblico e relatori presenti hanno condiviso con il gruppo di Vedelago un momento di grande intensità e commozione quando il Presidente della Fondazione, Prof. Angelo Ferro, ha voluto dedicare un pensiero alla memoria di Giuliana Favaro, già dipendente della sede di Vedelago, recentemente scomparsa.

Per l’occasione erano presenti Roberto, il marito, con il figlio Gregori, accompagnati da numerosi famigliari di Giuliana, ai quali il Prof. Ferro ha fatto omaggio di un’icona raffigurante la Madonna, proprio a voler significare ed elogiare la grande volontà e determinazione di Giuliana e il valore esemplare della suo sogno raggiunto di diventare mamma.

Di Giuliana, nelle parole della sorella, è stata brevemente narrata l’esperienza di vita, sempre orientata alla generosità e all’altruismo, anche negli ultimi mesi vissuti cercando di lottare con la malattia che l’aveva colpita, ed il grande progetto, parzialmente realizzato, di coniugare il ruolo di madre e moglie con quello di lavoratrice attenta ai bisogni e al rispetto della dignità della persona.

Di seguito riportiamo i due racconti premiati.

“Se chiudo gli occhi…” di Emanuela Prior (anni 89)

Se chiudo gli occhi vedo ancora quella grande casa in cui abitavamo in ventisei persone…si arrivava perfino al quarto grado di parentela! Eravamo in tanti e noi bambini non potevamo mangiare in cucina con i grandi ma stavamo sui gradini della scala che portavano al granaio…come i polli! La nostra cena era un bicchiere di latte e solo i figli del padrone potevano gustarsi una scodella di caffelatte con lo zucchero. Io per assaggiare un po’ di zucchero dovevo guardarmi bene di non essere vista da nessuno: quando il padrone, che era un invalido di guerra, mi mandava a  comprare due etti di zucchero non riuscivo a resistere alla tentazione…di nascosto aprivo il sacchetto, leccavo un dito, lo affondavo dentro e poi dritto in bocca. Velocemente mi pulivo e richiudevo il sacchetto come era prima perché nessuno doveva sospettare di nulla.

Quanti ricordi mi tornano alla mente ma questo racconto lo voglio dedicare a mio nonno Bepi che mi voleva tanto bene. Avevo otto anni e una sera, dopo la recita del Santo Rosario, lui si è avvicinato dicendomi: “A letto subito! Domani mattina prima che suoni l’Ave Maria dobbiamo andare nel terreno che tua nonna ha ereditato!”. E io, borbottando tra me e me perché dopo i campi ci sarebbe stata la scuola, sono andata a letto contenta perché il nonno aveva scelto me per aiutarlo.

L’indomani prima delle cinque è venuto a chiamarmi e con i buoi e le mucche abbiamo attraversato il paese; siamo arrivati nel terreno che era ancora buio, ci siamo seduti e io ho preso sonno! Mi sono svegliata perché ho sentito qualcosa muoversi sotto il mio sedere, era una piccola biscia! Suonava l’Ave Maria e insieme abbiamo detto l’Angelus Domini. Abbiamo munto una mucca per fare colazione e ci siamo incamminati verso casa. Puntuale alle otto e mezza sono arrivata a scuola.

Avevo otto anni e oggi che ne ho ottantanove molti sono i ricordi che ho perso ma dentro di me, insieme al viso e al modo di parlarmi di mio nonno, rimangono i colori del cielo alle cinque di mattina, il suono delle campane dell’Ave Maria, il silenzio del paese che dorme, il mio sedere muoversi sopra la biscia, il sapore del latte appena munto…rimangono in me e mi fanno sentire viva!

“La mia fragile forte Nonna” di Luigino Righetto

Vivo l’età in cui si diventa nonni e ripenso spesso alla figura esile, debole all’ apparenza, che mi ha accompagnato con discrezione alla giovinezza. Alta un metro e mezzo, aveva il capo coperto da un velo nero stretto con un nodo sulle spalle, che nascondeva i suoi candidi capelli raccolti in crocchia a formare un mazzocchio sulla nuca. Gli occhi limpidi e trasparenti come un cristallo, donavano al suo viso segnato da profonde rughe, scavate dall’età e dalle sofferenze, una luce brillante che rendeva serena la sua bellezza senile, aggraziata da un timido sorriso che lasciava intravedere le nude gengive e il suo unico dente canino. Le piccole mani nodose, erano segnate da grosse vene.

L’unico vestito che ha sempre indossato era una lunga tunica nera che le copriva le caviglie e lasciava spuntare un paio di nere ciabatte che nelle occasioni importanti lucidava con cura.

Era la mia Nonna paterna, per me la nonna più bella del mondo.

La ricordo vecchia e l’ho vista consumarsi lentamente fino a conservare solo la magra corteccia di uno scheletro minuto.

Alla fragilità del corpo contrapponeva una grande forza d’animo in contrasto con una mite bontà che nella mia vita non ho più ritrovato in altre persone.

Gli ultimi ricordi che ho di Lei sono le lacrime e le parole chi mi ha detto quando sono partito per il servizio militare, dandomi l’ultimo bacio: “Vai vai bello mio, noi non ci rivedremo più”.

E’ stata profetica. E’ morta solo un mese dopo, mentre ero lontano da casa.

Ho saputo in seguito che dopo la mia partenza, già minata dal male, girava per casa depressa, stordita e assente, come alla ricerca di qualche cosa che le mancava. Cosa le sarà passato per la mente? Forse il ricordo di mio nonno, partito per la guerra e mai più tornato?

Ho vissuto con Lei fino ai vent’anni e il rammarico che mi porto nel cuore è di non averla potuta salutare per l’ultima volta.

Ottenuto un permesso, dopo un lungo viaggio, sono arrivato in paese per i suoi funerali, ma sceso dal pullman, un amico di famiglia, con gli occhi gonfi di pianto mi ha informato che la nonna era stata sepolta il giorno prima.

Non volevo crederci e mi sono recato al cimitero poco lontano.

Le alte mura ed i cancelli in ferro che racchiudevano il cimitero, a me bambino, apparivano come un castello. Purtroppo il tumulo di terra fresca e la foto che ritraeva la nonna con gli occhi chiari e il sorriso triste ma dolce, mi hanno confermato la realtà e da quel giorno anche per me quel luogo è diventato il cimitero. Mi ha preso un brivido e in solitudine ho pianto perché non avrei più potuto tenermi abbracciato a quella mia piccola e fragile nonnina che tanto bene mi aveva voluto e le ho detto: “Nonna ora tu sei finalmente felice, ma io non potrò più sentire la tua mano delicata accarezzarmi i capelli.“

In un attimo ho rivisto il film della sua vita. Il suo rapporto stretto con me e i miei fratelli, le sue poche gioie e le sue tante tribolazioni. Mi sono tornate alla mente le fiabe che mi aveva  raccontato e i tanti racconti delle vicende della sua vita. Ho realizzato che giovane vedova di guerra aveva allevato da sola senza mai lamentarsi, quattro bambini, che non ricordavano il loro padre assente da casa per il servizio militare.

Ho rivissuto le tante sere prima di addormentarmi quando già al caldo sotto le coperte, in una camera gelida e mai riscaldata, la sentivo arrivare leggera e silenziosa per coricarsi. Si avvicinava con discrezione, mi chiedeva se avevo recitato le preghiere della sera e con la sua flebile voce sussurrava il pater ave e gloria, prima in latino poi in italiano, quasi che le prime non fossero state capite da Dio, poi le preghiere dei defunti e altre invocazioni.

Mentre si coricava, rimboccandosi le coperte, recitava in dialetto l’ultima preghiera che ancora ricordo:

 A leto me ne vo

De sveiarme mi no so

Vu Madona che savì

Quante Grazie me donarì

Confession, Comunion, òjo Santo

Nel nome del Padre …

 Me ne vado a letto

ma non so se domani sarò ancora vivo

Voi Madonna che conoscete il mio futuro

Mi auguro mi diate la grazia di ricevere

la Confessione, la Comunione e l’unzione delle infermi

Nel nome del Padre …

Con il tempo ho capito il suo abbandono alla volontà Divina e la piena fiducia nella sua Misericordia, e il profondo desiderio di cristiana praticante di ricevere con coscienza gli ultimi sacramenti.

Un turbinio di ricordi affollano ora la mia mente ma posso trascrivere poche significative memorie per ricordare gli insegnamenti ricevuti più con l’esempio che con le parole.

A casa eravamo in otto: papà, mamma, cinque fratelli e la Nonna.

Lei come spesso succede fra gli anziani, si era ricavata il ruolo di saggia.

Non era né saccente né invadente ma la sua discrezione ci portava quasi inconsapevolmente a chiedere sempre il suo parere quando c’erano delle decisioni importanti da prendere. Trovava sempre il tempo di ascoltare tutti.

I miei genitori consapevoli del suo patrimonio di esperienza, tenevano in grande conto il suo pensiero e i suoi consigli.

Noi bambini e ragazzi avevamo quasi una venerazione nei suoi confronti.

Leggeva senza occhiali il settimanale “Famiglia Cristiana” e ne commentava criticamente gli articoli più importanti, lasciandoci stupiti della sua capacità di comprendere e commentare quanto aveva letto. Aveva frequentato solo la seconda elementare.

Quando combinavo delle marachelle e succedeva spesso, a volte ero punito e mandato a letto senza cena.

Mia Nonna non interveniva mai in mia difesa, ma nel silenzio della notte, quando tutti erano a letto mi dimostrava il suo amore portandomi qualche cosa da mangiare. Mi raccomandava di non riferirlo alla mamma, ma sono convinto che qualche volta fossero d’accordo fra di loro.

In quelle occasioni non mancava di rimproverarmi e con un leggero ticchettio della mano sulla mia fronte ripeteva una sua frase ricorrente: “lazaròn, quando xe che te metaré giudissio”.  

Ora che i bollori di gioventù sono svaniti, ti assicuro Nonna, che vorrei essere buono come lo sei stata tu.